UCCIDERE PER PRESERVARE L'INNOCENZA DEI GENITORI

 

 

 

Quanto più chiare ed esplicite sono le mie affermazioni, tanto più imparo dalle reazioni degli altri. Alcune di queste reazioni costituiscono una sfida per me, mi inducono ad approfondire e a precisare il mio pensiero. Così mi è capitato anche di fronte alle domande che mi sono state ripetutamente formulate a proposito della presunta innocenza dei genitori, e che si possono riassumere, più o meno, in questi termini: «Non vorrà sostenere per caso che i genitori sono colpevoli quando maltrattano i loro figli per disperazione? Lo ha scritto anche lei che i genitori agiscono in uno stato di coazione, quello di trasmettere i traumi inconsci della loro infanzia ai loro figli, e che è per questo che li maltrattano, li trascurano o abusano sessualmente di loro.»

Simili argomenti mi hanno chiarito che, a questo punto, devo compiere un passo che non avevo ancora osato fare nei miei primi libri. E, nel farlo, parto da una affermazione assai semplice, che nessuno può contestarmi seriamente, e che dice: chiunque distrugga una vita umana si rende colpevole. È una nozione in armonia con la nostra legislazione; è in base a questo principio che certe persone sono condannate a scontare molti anni di carcere: e nessuno mi contraddirà se lo definisco un principio etico generalizzato nella nostra società. Nemmeno se aggiungo alla parola 'nessuno' una qualsivoglia qualifica professionale il principio perde di validità, fatta eccezione forse per le professioni di 'generale' e 'politico'. Poiché a questi gruppi professionali è senz'altro concesso di mandare a morte delle persone senza doversene poi addossare la responsabilità. Però, in tempi di pace, non è permesso distruggere la vita altrui, perché si tratta di un delitto perseguibile. Con una sola eccezione: ai genitori è consentito di distruggere impunemente la vita dei loro figli. E benché si tratti d'una distruzione che nella maggior parte dei casi si ripeterà anche nella generazione successiva, i non la si vieta affatto: è solo proibito definire tutto questo uno scandalo. Ed è questo tabù che mi ha a lungo impedito di vedere e di formulare chiaramente la colpa dei genitori. Però ho anche e soprattutto avuto paura di dover mettere in discussione i miei genitori, perché ho evidentemente sempre temuto di ridestare l'esperienza della situazione in cui mi sono trovata: la sensazione di dipendere da genitori che non avevano idea alcuna dei bisogni d'un bambino e della loro stessa responsabilità. Ho sempre trovato un'infinità di giustificazioni per tutto quello che i miei genitori hanno fatto oppure omesso di fare, pur di non dovermi domandare: «Perché mi avete fatto questo? Perché tu, mamma, non mi hai protetta, perché non ti sei preoccupata per me, perché hai ignorato le mie affermazioni, perché le versioni che tu davi del mio comportamento sono state più importanti della verità, perché non ti sei mai scusata con me, perché non hai mai confermato le mie constatazioni? Perché hai accusato e punito me per cose che tu avevi palesemente causato? »

Sono tutte domande che, da bambina, non ho mai potuto formulare. E più tardi, nella vita adulta, conoscevo le risposte, o credevo di conoscerle. Mi dicevo: mia madre ha avuto un'esistenza difficile da bambina, ha dovuto rimuovere tutto e idealizzare i suoi genitori; mia madre credeva in un tipo d'educazione in cui allora credevano tutti. Non sapeva quanto soffrivo, perché la sua stessa storia non le aveva dato le antenne necessarie per comprendere l'animo infantile, e perché la società la confermava nell'opinione secondo cui il bambino va allevato in modo da essere un docile robot a spese della distruzione della sua anima. Che colpa si può contestare a una donna che non sapeva fare di meglio?

Oggi dico che non solo si può, ma lo si deve fare: perché sia chiaro ed evidente cosa succede, ora dopo ora, ai bambini, e perché anche le madri infelici possano finalmente capire ciò che è stato loro inflitto nell'infanzia. Lo si deve fare perché la paura di accusare i genitori rafforza lo status quo: ci si attiene all'ignoranza e alla trasmissione di atteggiamenti ostili al bambino. È un diabolico circolo vizioso che deve essere infranto. Perché sono proprio i genitori ignari quelli che si rendono colpevoli: ai genitori consapevoli questo 'non succede'.

Un bambino che non sia ferito o maltrattato, può dire o far capire quello che sente e vuole alla madre quando lei lo fa infuriare o gli fa del male. Io questa possibilità non l'ho avuta. Io dovevo temere le peggiori punizioni anche solo a manifestare una minima resistenza, e non dovevo limitarmi a tacere, dovevo anche rimuovere i miei ricordi e reprimere i miei sentimenti. E mia madre non s'accorgeva affatto di tutto questo, tanto è vero che ha potuto tranquillamente continuare a praticare i suoi metodi, constatarne 1' 'efficacia' e quindi giudicarli giusti e innocui. Non ha mai dovuto temere le mie reazioni. Da me s'aspettava invece che le perdonassi ogni ingiustizia e non le serbassi alcun risentimento. Io mi sono assoggettata a questa situazione esattamente come ogni altro bambino che fosse o sia in condizioni analoghe: non potevo fare diversamente. Mio padre preferiva evitare contrasti con mia madre, e non vedeva quindi quello che accadeva sotto i suoi occhi. Non si è dedicato alla mia educazione, come faceva mia madre, e nei rari momenti della sua presenza mi ha anche dato perfino un po' di calore e di tenerezza. Però non si è mai battuto per il riconoscimento dei miei diritti. Non mi ha mai dato, più in generale, la sensazione che io avessi dei diritti, non ha mai confermato le mie impressioni né ammesso la crudeltà di mia madre.

E del resto sono tutte cose che, da bambina, non avrei nemmeno potuto dire a mio padre, perché non le percepivo affatto. Come mi sarei mai potuta accorgere che non era affatto consapevole delle sue responsabilità di padre? Non disponevo d'altro che della consolatoria illusione che la sua mano ferma e calda m'avrebbe protetta da tutti i pericoli della vita; che non mi poteva succedere niente finché lui fosse stato al mio fianco e mi avesse tenuta per mano.

Mi sono aggrappata per decenni a quest'illusione per non dover capire, invece, che quella mano non è stata altro che una mano inerte. Una mano che mi ha lasciato il buon ricordo del legame con una persona, mio padre, che è morta presto: ma non di più. Perché, se mio padre avesse avuto il coraggio di vedere cosa mi succedeva, e di difendermi, tutta la mia vita si sarebbe svolta diversamente. Avrei osato, allora, dar retta a ciò che sentivo e vedevo, avrei saputo difendermi meglio e non avrei consentito che, similmente a mia madre, altra gente ignorante mi facesse del male. Se da bambina io avessi avuto l'opportunità di dar libero corso ai miei sentimenti anziché di reprimerli, se mi fosse stato concesso di manifestarli e di prendere coscienza dei miei diritti, decenni dopo avrei anche osato e saputo rispondere istintivamente al linguaggio dei miei figli, anziché farmi intimidire da infermiere che 'ne sapevano di più'.

C'è gente che replica a queste considerazioni con la frase: ogni individuo ha un suo proprio carattere, non si possono rinfacciare ai genitori le loro peculiarità caratteriali e renderli responsabili di tutto ciò che è mancato a un bambino. Quanto ho descritto non ha tuttavia nulla a che fare con i tratti di carattere individuali. Si tratta semmai d'un atteggiamento generalizzato nei confronti del bambino, che si spiega solo e unicamente con la rimozione delle proprie sofferenze infantili, e che è sicuramente modificabile. Infatti, ogni persona è libera di porre fine alla rimozione e di accogliere informazioni: informazioni sui bisogni del bambino, sulla sua vita emotiva e sui pericoli insiti nella repressione dei suoi sentimenti. Non si può insomma aggirare la questione della colpa dei genitori, e io intendo affrontarla esplicitamente senza più sottrarrai alla spiegazione. Una spiegazione che era da tempo necessaria, ma che è forse possibile soltanto oggi perché solo oggi esistono dei giovani che hanno vissuto un'infanzia dallo svolgimento più positivo e che di conseguenza non hanno bisogno d'aver paura di mettere in discussione i loro genitori. Se sfoglio oggi i miei primi libri, constato di essermi ripetuta-mente voluta sottrarre all'accusa di colpevolizzare i genitori. Ho sempre insistito nel dire che al paziente va riconosciuto il pieno diritto di sentire e di esprimere i sentimenti d'indignazione, ira e rabbia nei confronti dei genitori. Però aggiungevo, contemporaneamente, che non avevo il diritto di muovere dei rimproveri a quei genitori, perché non avevano educato e manipolato me, non avevano impedito a me di vivere. Lo avevano fatto solo con il loro figlio. Oggi vedo la questione in termini diversi. Nemmeno oggi m'interessa particolarmente muovere delle accuse a genitori altrui, però non rifuggo più dal pensare e dal dire esplicitamente che i genitori sono colpevoli nei confronti dei loro figli, anche se agiscono sotto l'effetto d'una costrizione interiore e del loro stesso, tragico passato.

Io non riesco a figurarmi degli assassini o dei delinquenti i quali non agiscano per effetto d'una costrizione interiore. Eppure sono ugualmente colpevoli se distruggono o mutilano la vita altrui. La giurisprudenza conosce le cosiddette circostanze attenuanti, quando constata che l'autore di un delitto ha agito in 'uno stato di irresponsabilità. Ma il movente dell'autore di un i delitto e il suo personale stato di necessità non modificano in i alcun modo il dato di fatto che una o più vite umane sono state sacrificate a causa della sua condizione psichica. Contrariamente a quanto avviene nella prassi giudiziaria, io sono del parere che ogni omicidio che non sia commesso per immediata legittima difesa, ma ai danni d'innocenti estranei che fungono da sostituti del vero obiettivo dell'aggressione, è la conseguenza di una costrizione interiore, della costrizione a vendicarsi dei gravi maltrattamenti, degli stati d'abbandono e di disorientamento subiti durante l'infanzia, e a conservare rimossi i corrispondenti sentimenti.

Simili stati di costrizione si possono cogliere anche dietro l'apparentemente fredda premeditazione d'un omicidio. E lo si può illustrare con un esempio.

Nel 1984 la National Public Radio di Washington mi ha chiesto un'intervista. La giornalista incaricata d'intervistarmi aveva letto in precedenza i miei libri, è venuta ben preparata e sembrava aver capito bene tutto quello che avevo detto e scritto. Una sola mia enunciazione le aveva creato delle difficoltà di comprensione: e cioè che nessuno cui sia consentito di rivivere consapevolmente ciò che gli è stato inflitto nell'infanzia commetterà mai un omicidio. Eppure, le ho spiegato, finiscono in carcere proprio quegli individui che non hanno mai avuto l'occasione di rivivere la storia della loro infanzia: perché è stata oltre modo angosciosa e perché non hanno mai trovato qualcuno capace di assisterli in questa rievocazione. La ricostruzione della storia della vita di Jùrgen Barsch — di cui ho citato degli estratti in La persecuzione del bambino — è stata possibile soltanto perché il giornalista Paul Moor si è avvicinato a Barsch, ha conquistato la sua fiducia e lo ha indotto a rivivere i sentimenti e le sue emozioni di bambino ferito. In casi analoghi l'omicida è bensì in grado di ricordare i fatti, riesce perfino a descriverli e a pubblicare dei libri sui maltrattamenti subiti nell'infanzia, però lo fa senza emozione, senza partecipazione interiore, come se parlasse di una persona estranea. Ed è appunto per questo che continua a soggiacere alla costrizione di trovare un'altra vittima per la sua ira repressa, latente e immutata.! Neanche la più lunga delle pene detentive può cambiare in alcun modo questa dinamica intcriore, perché lo stato di costrizione risale all'infanzia e può senz'altro continuare a sussistere anche per sessant'anni se non avviene l'incontro con una persona che sappia ridestare i sentimenti impietriti e quindi aiutare a sminuire almeno in parte il perdurante stato di costrizione. Ho detto a quella giornalista statunitense che la mia tesi è verificabile: basta andare a parlare coi detenuti e informarsi sulla loro infanzia. Si può anche immaginare che tutti, senza eccezione, diranno di aver avuto un padre severo che doveva punirli spesso, anche picchiandoli, ma solo perché loro erano stati cattivi e lo avevano meritato. Descriveranno invece, per lo più, le madri come persone amorose, e addurranno circostanze esterne — la povertà, per esempio — come causa delle crudeltà sofferte.

Benché quella giornalista esitasse nell'accettare la plausibilità di questo meccanismo — la realtà negata come spiegazione dei delitti — mi ha poi anche correttamente riferito che le statistiche confermavano la mia affermazione. Secondo questi dati, il 90% dei detenuti nelle carceri statunitensi ha subito maltrattamenti nel corso dell'infanzia. Io le ho detto d'essere convinta che non si tratta solo del 90, ma del 100%. Il rimanente 10% è fatto di persone che non vogliono rendersene conto, che non si limitano soltanto a rimuovere i sentimenti, ma negano anche i fatti. Può però anche darsi il caso, naturalmente, che i primi maltrattamenti non siano stati affatto opera dei genitori, ma della disumana prassi che vige nei nostri ospedali in occasione dei parti. In taluni casi è difficile accertarlo, e in un bambino gravemente traumatizzato nel momento della nascita oppure subito dopo isolato da ogni contatto umano in un'incubatrice, possono insorgere assai presto i sintomi che gli renderanno ancor più difficile l'impresa di accattivarsi l'amore dei genitori. Tuttavia è del tutto impensabile che un essere umano che abbia avuto fin dalla nascita l'amore, la tenerezza, la vicinanza, l'assistenza, il rispetto, la franchezza e la protezione degli adulti, divenga in seguito un omicida.

«È possibile che la spiegazione sia così semplice?» ha chiesto la mia interlocutrice. Sì, è semplice, eppure la maggior parte delle persone vi arriva con difficoltà, perché l'accesso a questa verità è sbarrato dalle sofferenze che si sono patite nella propria infanzia. Così si preferisce dar retta a teorie che risultano anche assai complesse, e che hanno però il vantaggio di risparmiarci delle sofferenze. Ed è per questo che milioni di detenuti rimangono senza aiuto. Scontano insensatamente le loro pene senza che nulla cambi dentro di loro, e si mantiene attivo un meccanismo che serve, fra l'altro, a tenere nascosta e non denunciata la colpa di cui si sono macchiati i genitori di quei detenuti.

«Ma cosa accade quando una persona scopre, nel corso d'una terapia, quello che gli hanno fatto i genitori?» ha voluto sapere la giornalista. «Non può succedere, per esempio, che voglia uccidere i suoi genitori, che quindi la sensibilità risvegliata in lui non lo preservi dall'omicidio?»

No, è stata la mia risposta: può darsi che quell'individuo senta la voglia di farlo, ma non lo farà. Innanzi tutto perché il risvegliarsi della sensibilità farà rinascere in lui anche la voglia di vivere e non vorrà più comprometterla. Ma c'è anche un'altra ragione: le emozioni che si possono far risalire alle esperienze infantili sono soggette alla legge della trasformazione. Si modificano nel corso del tempo e fanno posto ad altre sensazioni. La collera nei confronti dei genitori rimane invariata finché non la si può apertamente sentire come tale: perché si ha paura di questa collera, perché la si sente come una colpa e si teme la vendetta dei genitori. Una volta però che questa paura sia stata rivissuta in tutte le sue implicazioni e che se ne siano comprese le connessioni, l'individuo non è ulteriormente disposto a sentirsi colpevole di un qualcosa che altri hanno fatto. Questa liberazione riduce la carica dell'odio.

Quando ci siamo congedate, non ero molto sicura che la mia interlocutrice avesse trovato le risposte che voleva nelle spiegazioni che le avevo dato, però il nastro che mi ha in seguito spedito, e su cui era registrato tutto il programma, ha dimostrato che mi aveva capito benissimo (cfr. Wendy Blair, Children ai Risk, National Public Radio, Washington 1985). In fase di montaggio, aveva inserito nella nostra conversazione alcune interviste con vittime di maltrattamenti e anche un'intervista con un omicida, da anni conservata negli archivi della stazione radio. Si trattava di un uomo che aveva ucciso un numero impressionante di donne. Il giornalista che lo aveva intervistato aveva già allora notato che quell'uomo raccontava dei suoi delitti senza alcuna partecipazione emotiva; però il significato di questa assenza di emozioni gli è diventato chiaro solo dopo aver sentito le mie spiegazioni. L'omicida, nelle risposte ai que-siti che gli erano stati posti, aveva riferito che sua madre era una prostituta e che lo picchiava «ogni volta che le capitavo fra i piedi». Alcune volte era stata sul punto d'ammazzarlo di botte. Quella donna non aveva desiderato un figlio, ma una figlia, e lui, fino al settimo anno di vita, era stato costretto a portare abiti da bambina e i capelli lunghi. Quando la maestra, a scuola, gli aveva tagliato i capelli, la madre lo aveva quasi ucciso dalla rabbia. Cosa aveva provato nell'assassinare? Niente, aveva risposto il detenuto. Usciva ogni giorno di casa col proposito di uccidere una donna, esattamente come un altro esce di casa per andare al lavoro. Poteva darsi che la sua difficile infanzia avesse a che fare coi suoi delitti?, aveva voluto sapere il giornalista. «Oh no» era stata la risposta del detenuto, pronunciata con ferma convinzione e — per la prima volta — anche con una traccia d'emozione. «Non posso accusare mia madre per quello che ho fatto io.»

Quell'uomo aveva rimosso così radicalmente il suo passato da non riuscire nemmeno a sognare. All'età di 14 anni aveva ucciso per la prima volta una coetanea. Si può presumere che avesse voluto sbarazzarsi in questo modo della bambina che la madre s'era augurata di avere al posto suo. Aveva ucciso e continuato a uccidere per la semplice e comprensibile ragione che non era mai riuscito, a nessun prezzo, a conquistare l'amore della madre, e questo perché era un maschio anziché una femmina. Se la madre si fosse attesa dell'altro da lui, forse sarebbe riuscito a esaudirne i desideri, ma la vita non gli aveva offerto quest'occasione. Un bambino è disposto a tutto pur di conquistare l'amore della madre, perché non può vivere senza questo amore. E quindi anche quel bambino — che non aveva avuto altro che odio dalla madre, da una madre che pure, a sentir lui, aveva tanto amore da vendere — aveva cercato un mezzo per conquistarne un po' anche lui. Può anche darsi che il ragazzo si fosse sentito costretto a uccidere la coetanea pur di richiamare su di sé, in qualche modo, l'attenzione materna. Sono tutte cose che non sappiamo. Solo lui avrebbe potuto dircele se gli si fosse stata data la possibilità di vivere i suoi sentimenti, di piangere e di sognare. Ma non aveva avuto quest'occasione. Il suo animo era stato murato. Uccidere era diventato il suo unico modo di comunicare.

Chi è dunque il responsabile della morte di tutte quelle donne? Ovviamente l'omicida adulto. Ma non solo lui. Se siamo disposti a vedere le evidenti connessioni, non possiamo sostenere che la madre non ha avuto la sua parte di colpa. È vero, l'omicida dice: «Mia madre non ha colpa di quello che io ho fatto», e la società conferma quest'affermazione. Io invece sono del parere che è stata proprio quella madre a fare di suo figlio un omicida: anche se il figlio non lo sa, anche se la società e la madre stessa non lo sanno o non vogliono saperlo. Ed è appunto questo non porsi nemmeno la questione che è fonte di pericolo. Per impedire futuri, colpevoli comportamenti, occorre rendersi ben conto anche di questo pericolo.

È una considerazione così ovvia, così scontata, che non ci si aspetta una seria resistenza a un'adeguata opera di chiarificazione. E invece la resistenza è, molto forte, soprattutto da parte di quei genitori che avrebbero più urgente bisogno di questa chiarificazione. Perché? Si è portati a pensare che per i genitori sarebbe di molto aiuto il saperne di più sui modi in cui ledono inconsapevolmente i loro figli, tanto da poter evitare di continuare a farlo in futuro. Il fatto è che sono soprattutto i genitori _che non sono stati a loro volta gravemente traumatizzati da bambini quelli che traggono vantaggio dalle corrette informazioni sulla vita emotiva dei bambini. E purtroppo sono una minoranza. Infatti, la maggior parte dei genitori sono rinchiusi fin dall'infanzia in una trappola emotiva e non aspettano altro che di poter finalmente sfogare l'antico, inconscio furore che hanno accumulato. E non trovano altra via d'uscita dalla trappola che non sia quella rappresentata dai loro figli. Infatti solo loro, i figli, possono essere impunemente picchiati, insultati e umiliati col pretesto dell'educazione, esattamente come un tempo avevano fatto i genitori dei genitori. Tragicamente, un individuo in trappola che veda una sola via d'uscita, non sa né può rinunciare all'idea di sfruttarla. Rimarrà cieco e sordo dinnanzi a qualsiasi informazione ragionevole fino a quando quella strada non sarà stata definitivamente sbarrata da una adeguata legislazione. Quando la legge vieterà finalmente di sfogare sui figli la rabbia accumulata nei confronti dei propri genitori, bisognerà trovare un'altra via di scampo dalla trappola: ed è possibile trovarla. Certo, non si potrà evitare di provare il dolore causato da ciò che si è personalmente patito, ma questo dolore è certamente salutare e non distruttivo.

Se una madre fosse messa nella condizione di capire e di sentire le ferite che infligge a suo figlio, scoprirebbe anche d'essere stata a sua volta ferita in passato, e potrebbe quindi liberarsi dalla costrizione ripetitiva. Tuttavia l'educazione e la religione le vietano di sentire e di capire cosa le è successo, e la precipitano così in un nuovo groviglio di colpe.

Il rifiuto di ammettere le conseguenze dei danni e delle lesioni precocemente inflitti al bambino permea l'intera nostra società. Tutte le istituzioni religiose predicano da millenni ai loro credenti il rispetto per i genitori. Sono prediche che non sarebbero affatto necessarie se tutti fossero allevati con amore e rispetto, perché in tal caso corrisponderebbero con istintivo e naturale rispetto all'affetto che hanno avuto. È evidente che solo quando una persona non ha alcun motivo per rispettare i genitori, occorre costringerla a farlo. Una simile costrizione ha un effetto pericoloso, nel senso che ogni critica rivolta ai genitori è definita peccato e fa di conseguenza insorgere gravi sensi di colpa. Dal momento che si pretende che i genitori, anche quando sono ormai morti, siano rispettati, il rispetto dovuto loro è pagato dai figli. Che poi questa soluzione sia anche considerata morale, non fa che aggravare lo scandalo. Si sacrifica la vita futura per garantire il rispetto coatto di persone che questo rispetto non hanno meritato, perché hanno gravemente abusato del loro potere quando i loro figli erano piccoli e si fidavano di loro.

Eppure, in quasi tutte le culture, ci si attiene a questo comandamento. Indiani, vietnamiti, cinesi, arabi, neri d'Africa mi raccontano tutti sempre le stesse storie: «Abbiamo meritato le botte, erano inevitabili per farci imparare a rispettare i nostri genitori. Quello che loro dicevano e facevano era sempre sacro.» Alcuni aggiungono: «Anche noi dobbiamo inculcare ai nostri figli il rispetto per noi, altrimenti diverranno dei vandali. » E solo in rari casi si accorgono che, con queste violenze, non fanno altro che accumulare della dinamite nei loro figli e allevare dei vandali: esattamente come fanno i bianchi. Un africano, studente di psicologia, mi ha detto una volta, nel corso d'un lavoro di gruppo a Londra: «Io lo so che fin da quando ero piccolo si è abusato di me: fisicamente, psichicamente e sessualmente.» «Come mai ha potuto rendersene conto?» gli ho chiesto. «L'ho compreso leggendo i suoi libri e ora ne ho ovunque la riprova nel mio ambiente. Eppure tutti, bianchi e neri, sostengono che quello che constato non è vero. Per di più i nostri genitori affermano di aver appreso la crudeltà dai bianchi e negano che vi abbiano contribuito i loro genitori.» «Colui che non mortifica suo figlio e non lo punisce, non lo ama», si legge nei Libri di Salomone. E questa cosiddetta saggezza è oggi ancora tanto diffusa che capita spesso di sentir enunciare il principio: uno schiaffo dato con amore non produce danni. Perfino Kafka, che pure aveva una attenta sensibilità nel cogliere i toni falsi e ipocriti, avrebbe detto secondo un testimone: «L'amore ha spesso la faccia della violenza.» Secondo me è inverosimile che questo testimone citasse le parole di Kafka esattamente, a meno che anche Kafka non forzasse se stesso, come tutti noi, a considerare la crudeltà come una forma d'amore.

Ma può esistere davvero una crudeltà dettata dall'amore? Se la gente non fosse abituata fin dalla prima infanzia a questa menzogna, ci farebbe subito caso: la crudeltà è il contrario dell'amore, e i suoi effetti traumatici non risultano affatto sminuiti, anzi semmai rafforzati, dallo spacciarla per un segno di affetto.

In un libro scritto nel 1985 dal giornalista statunitense Phil Donahue si legge questo passo:

Che cosa si vuole dunque che facciano i genitori? Tutto questo significa forse che non bisogna mai sculacciare i propri figli? Sicuro, nessuno intende farne dei malviventi ricorrendo a forme d'educazione troppo severe; d'altra parte non si vuole nemmeno che crescano indisciplinati. Esiste un qualche modo di punire un bambino senza che ne riporti danni emotivi? È proprio vero che i bambini reagiscono con tanta sensibilità alle punizioni corporali, al punto che perfino il più leggero degli scappellotti debba essere definito un 'maltrattamento' traumatico e produrre come conseguenza che il bambino diventi un delinquente oppure un nevrotico senza speranza? È possibile infliggere a un bambino delle correzioni corporali senza per questo doversi tormentare con dei tremendi complessi di colpa?

Non tutti gli studiosi del comportamento sono d'accordo con la Miller quando afferma che le punizioni, anche nei casi in cui sono date nell'ambito d'un rapporto pieno di affetto, operano inevitabilmente in modo distruttivo. Jerome Kagan della Harvard University sostiene, per esempio, che i bambini sono senz'altro in grado di accettare punizioni senza sviluppare poi da adulti una propensione alla violenza. Egli ritiene che — a prescindere dai casi di abuso estremo — l'interpretazione che il bambino da del comportamento dei genitori è assai più importante di questo comportamento in sé. Solo quando il bambino interpreta la punizione corporale come un atto d'ingiustizia e di slealtà, anziché come l'espressione del desiderio dei genitori di aiutarlo a diventare un adulto produttivo, questo può portare — sostiene Kagan — alla delinquenza, alla criminalità, all'abuso di droghe e ad altri effetti simili. In realtà, afferma Kagan, molti studiosi esagerano il ruolo dei genitori a proposito delle cause dei comportamenti violenti dei loro figli. Pur prendendo chiara posizione contro pratiche punitive eccessive da parte dei genitori e contro gli abusi sessuali, egli nutre molta fiducia nelle capacità dell'animale uomo di sopravvivere a un'infanzia traumatizzata e di diventare un membro responsabile della società. Il senso di colpa è la tipica reazione dei genitori che scoprono un comportamento antisociale nel loro figlio. Si domandano: che cosa ho fatto di sbagliato? La risposta, a sentire Kagan, è: probabilmente niente. Secondo lui è troppo semplicistica la supposizione secondo cui ogni giovane che strappa la borsetta a una vecchietta non è stato sufficientemente amato da sua madre (pag. 211).

Benché questo testo cominci col chiedersi quale comportamento dei genitori possa produrre effetti traumatici e permanenti sul bambino, e ponga apparentemente la preoccupazione per la sorte del bambino in primo piano, la sequenza delle enunciazioni dimostra che, in sostanza, quello che sta a cuore all'autore è liberare invece i genitori dal giustificato senso di colpa che provano. Si garantisce loro che non ci sono pericoli, qualunque cosa facciano. Il bambino non ne deriverebbe danno alcuno quando sappia d'essere stato maltrattato per 'amore' e 'per il suo bene'. Questo genere di banalizzazione dei fatti, compiuto ricorrendo alle menzogne e basato sulle citazioni di presunti 'esperti', corrisponde ovviamente solo al desiderio dei genitori che non sono disposti a mettere in discussione il loro comportamento.

Ma non c'è davvero altro modo d'uscirne che non consista nello sminuire l'importanza dei fatti? Perché non dire piuttosto, francamente e apertamente, ai genitori come mai maltrattano i loro figli? Non tutti, certo, ma almeno alcuni smetterebbero di farlo. E invece certo che non smetteranno di tormentare i loro figli se si dirà loro — come già s'era fatto coi loro genitori trent'anni prima — che uno schiaffo in più o in meno non produce danni quando si voglia bene al bambino. Benché questo principio sia inficiato da una contraddizione interna, lo si continua a trasmettere da una generazione all'altra perché siamo abituati a sentirlo dire. E invece l'amore e la crudeltà si escludono a vicenda. Non si schiaffeggia mai per amore, bensì solo perché in situazioni analoghe, quando si era indifesi, si sono subiti degli schiaffi e si è stati costretti ad accettarli come 'segni di amore'. Ci si è attenuti per trenta, quarantanni a questa confusione, e la si tramanda ai propri figli. Ecco tutto. Spacciare al bambino questa mistificazione come verità conduce solo a ulteriori confusioni, che trovano bensì l'approvazione di certi presunti esperti, senza cessare però di essere confusioni. Se invece si è capaci di ammettere i propri errori di fronte al bambino e di scusarsi con lui per aver perso il controllo, allora le confusioni non s'ingenerano.

Se una madre è capace di spiegare al figlio che, sì, è stato l'amore che prova per lui a farle perdere la pazienza, ma anche che è stata travolta da sentimenti estranei, che non hanno niente a che vedere con lui, allora il figlio può conservare la mente lucida, si sente rispettato ed è in grado di orientarsi nel rapporto che ha con la madre. Certo, non si può imporre l'amore per il bambino, ma la decisione di rinunciare all'ipocrisia è una scelta che ognuno è libero di fare.

Io non so se nel mondo degli animali esiste l'ipocrisia. Ma, se non altro, non ho mai sentito dire di cuccioli che crescono con l'idea di dover essere maltrattati quasi a morte per diventare più tardi 'animali corretti e disciplinati'. L'ingenua fiducia che, certo in buona fede, Kagan ha nelle capacità dell' 'animale uomo' di sopravvivere senza danni a un'infanzia traumatica, ignora totalmente le caratteristiche di questi traumi: traumi gravidi di conseguenze, devastatori e fatali. Molti paragoni fra l'aggressività dell'uomo e quella dell'animale ignorano anche il dato di fatto che — considerato il potere distruttivo nucleare di cui l'uomo dispone e la capacità effettiva di distruggere il prossimo attestata da personaggi come Hitler e Stalin — ogni digrignar di denti d'animale dovrebbe apparire assolutamente innocuo. È possibile che dei professori di Harvard non lo sappiano? Ma certo. Se traggono la loro convinzione dell'innocuità dei traumi infantili dai pareri delle loro nonne, i dati di fatto obiettivi non insegneranno loro niente, evidentemente perché questa fiduciosa convinzione si conserva incrollabile in loro, per tutta la loro esistenza. Però, considerate le gravi confusioni che provocano, e considerate le pericolose ipocrisie cui danno sostegno, le conseguenze non sono affatto inoffensive. È proprio la generalizzata ignoranza delle conseguenze dei traumi infantili che minaccia oggi il mondo (cfr. A. Miller, 1988 a, capp. 5, 6, 7).